mercoledì 19 ottobre 2011

Dire non dire

Iniziamo a pubblicare qualche raccontaccio che non si trova più in giro. Quello che segue è un testo che è uscito nel 2007 nell'antologia Posa sto libro e baciami, curata dal prode e meraviglioso Ivano Bariani per i tipi di Zandegù - lo stesso Bariani che tra le altre cose gestisce la fumetteria più fica se non di tutto il regno, sicuramente di Parma. L'antologia prevedeva la riscrittura di una scena d'amore, una specie di cover. Ecco, più che una cover mi è venuto fuori una specie di guazzabuglio ispirato a I Tenenbaum. Vabe'.



Dire, non dire

Per anni ho pensato che non fosse dicibile. Che una volta detto - e con convinzione magari, con un brivido nel sottopelle - poi sparisse qualcosa e si confondesse il sentimento in un gorgo dubbioso. Era un’educazione al silenzio, o piuttosto all’eufemismo; al dire, sì, ma per una via diversa, non diretta, più tortuosa, forse più impervia: una strada di quelle che a metà ti spezzano il fiato, il sole ti chiazza di sudore la maglietta e le braghe sul cavallo. Poi, arrivati in fondo, un'estasi per aver protetto una specie di timidezza. Senza parlare della compulsione a ripetere e progettare metodi sempre nuovi e brillanti per non dire, con l’idea, invece, di essere sempre più espliciti.  Oppure no - a pensarci era più facile dissimulare, fingersi uno di quei personaggi solitari che salpano di notte su un transatlantico, con poche valigie e una racchetta da tennis, perché mai corrisposti, pur avendo lanciato segnali inequivocabili, e sapendo bene, nell’intimo almeno, che di inequivocabile c’è solo il parlar chiaro. Fingersi dico, perché poi si diventava sempre e solo quello che si era sempre pensato di essere, forse senza averne veramente la vocazione, ma per un difetto di fantasia, un fanatismo romantico alla solitudine scambiata per profondità, o peggio, il sentirsi diversi da tutti, dove diversi significa destinati a stare in un angolo, ad osservare gli altri in perfetta tensione tra il voler essere come loro e l’orgoglio di non esserlo.

Si chiamava Laura. Era la mia compagna di banco in quarta elementare. Mi aveva stravolto spingendomi giù per le scale una mattina di aprile. Passavamo i pomeriggi così: seduti sul suo letto, mano nella mano. Parlava lei. La madre ci sbirciava da una fessura della porta, di fronte a noi. Forse pensava che non la vedessimo. Rimaneva lì per interi quarti d’ora. Alle volte bussava, ma senza entrare mai. Il copriletto era bianco. Il resto della stanza giallo. Verde in certi angoli. Il materasso era a molle. Molle giganti. Sul comodino c’era un salvadanaio a forma di barbapapà. Lei aveva la coda di cavallo. Nell’armadio una pelliccetta di castoro che usava tutti gli inverni. Scriveva saggi di critica letteraria. Nell’ultimo aveva analizzato la fiaba di Giovannino senza paura secondo una prospettiva lacaniana. Io indossavo scarpe senza stringhe, che si chiudevano con lo strap.

Arriva un momento in cui il cervello sembra un elastico teso all’inverosimile, ti spintona lo spazio tra le orecchie e storce i capelli, drizzandoli. Sono quei momenti in cui ti verrebbe da dire tutto, ma sai solo fare blablabla, letteralmente; e ogni frase è un nodo che non si scioglie. Un’onda parte dalla testa e attraversa ogni centimetro di pelle, in un brivido, fino ai piedi. E si sente una sospensione nel petto, un pozzo senza fondo che sembra inghiottire il cuore. Finché a un tratto,  per caso, scatta un interruttore: un meccanismo riprende a funzionare, uno scarico espelle il fumo che bloccava tutto, e si alleggerisce la temperatura. E la lingua, che prima era quella di un avvinazzato dopo diverse bottiglie di amaro alle erbe, da un attimo all’altro diventa di carta velina.

In quinta fu difficile vedersi. Lei girava l’Italia con una conferenza su Michael Ende, io avevo dei problemi con il Risorgimento. Mi presi la rosolia subito prima dell’esame: lo feci a casa, da solo con la supervisione della maestra, che si chiamava Lina e amava i cappelli grandi. Quando ci incontrammo di nuovo, avevo ventinove anni. Ero il giocatore di basket più famoso d’Europa, ma da un po’ avevo perso interesse nello sport professionale. Un giorno - ero a *** per una serie di partite dimostrative - andai al museo di storia naturale. Il tempo era grigio, c’era poca gente. Lei da qualche anno si era sposata con un famoso attore giapponese. Se ne era parlato su tutti i giornali. La vidi davanti allo scheletro del triceratopo. Fissava una tibia, ma era come se non la vedesse. Giocava con un anello, girandolo sul dito con l’altra mano. Mi affiancai a lei. Ero più alto di circa venti centimetri. Come se niente fosse, mi parlò nello stesso identico modo in cui mi parlava anni prima, sul letto. Si trovava lì per caso: il marito girava un film da quelle parti, ma sembrava che mi stesse aspettando. E mi raccontò, camminando per le sale semi vuote del museo, della sua vita e di come il matrimonio non andasse tanto bene. Odiava il giappone, e più di tutto odiava il mondo del cinema giapponese. Quando smise di parlare erano quasi le sette. Uscimmo. Era buio. Allora, proprio in quel momento, guardando a terra, con le mani in tasca, le dissi (mi sentivo la faccia rossa, e non sapevo da dove stavo tirando fuori il coraggio di farlo, forse mi ero preparato per tutti quegli anni, senza esserne cosciente): Lo sai, ti ho sempre amato. E lei rispose: Ah, sì?



2 commenti:

Mino ha detto...

Sei il più grande scrittore di guazzabugli di questo secolo e del precedente… dopo Ende ovviamente!

ale ha detto...

:-) Mi suona meglio "guazzabugliaro"...