Dire, non dire
Per anni ho pensato che non fosse
dicibile. Che una volta detto - e con convinzione magari, con un brivido nel
sottopelle - poi sparisse qualcosa e si confondesse il sentimento in un gorgo
dubbioso. Era un’educazione al silenzio, o piuttosto all’eufemismo; al dire, sì,
ma per una via diversa, non diretta, più tortuosa, forse più impervia: una
strada di quelle che a metà ti spezzano il fiato, il sole ti chiazza di sudore
la maglietta e le braghe sul cavallo. Poi, arrivati in fondo, un'estasi per
aver protetto una specie di timidezza. Senza parlare della compulsione a
ripetere e progettare metodi sempre nuovi e brillanti per non dire, con l’idea, invece, di essere sempre più espliciti. Oppure no - a pensarci era più facile
dissimulare, fingersi uno di quei personaggi solitari che salpano di notte su
un transatlantico, con poche valigie e una racchetta da tennis, perché mai
corrisposti, pur avendo lanciato segnali inequivocabili, e sapendo bene,
nell’intimo almeno, che di inequivocabile c’è solo il parlar chiaro. Fingersi dico, perché poi si diventava
sempre e solo quello che si era sempre pensato di essere, forse senza averne
veramente la vocazione, ma per un difetto di fantasia, un fanatismo romantico
alla solitudine scambiata per profondità, o peggio, il sentirsi diversi da
tutti, dove diversi significa
destinati a stare in un angolo, ad osservare gli altri in perfetta tensione tra
il voler essere come loro e l’orgoglio di non esserlo.
Si chiamava Laura. Era la mia
compagna di banco in quarta elementare. Mi aveva stravolto spingendomi giù per
le scale una mattina di aprile. Passavamo i pomeriggi così: seduti sul suo
letto, mano nella mano. Parlava lei. La madre ci sbirciava da una fessura della
porta, di fronte a noi. Forse pensava che non la vedessimo. Rimaneva lì per
interi quarti d’ora. Alle volte bussava, ma senza entrare mai. Il copriletto
era bianco. Il resto della stanza giallo. Verde in certi angoli. Il materasso
era a molle. Molle giganti. Sul comodino c’era un salvadanaio a forma di
barbapapà. Lei aveva la coda di cavallo. Nell’armadio una pelliccetta di
castoro che usava tutti gli inverni. Scriveva saggi di critica letteraria.
Nell’ultimo aveva analizzato la fiaba di Giovannino senza paura secondo una
prospettiva lacaniana. Io indossavo scarpe senza stringhe, che si chiudevano
con lo strap.
Arriva un momento in cui il
cervello sembra un elastico teso all’inverosimile, ti spintona lo spazio tra le
orecchie e storce i capelli, drizzandoli. Sono quei momenti in cui ti verrebbe
da dire tutto, ma sai solo fare blablabla, letteralmente;
e ogni frase è un nodo che non si scioglie. Un’onda parte dalla testa e
attraversa ogni centimetro di pelle, in un brivido, fino ai piedi. E si sente
una sospensione nel petto, un pozzo senza fondo che sembra inghiottire il
cuore. Finché a un tratto, per caso,
scatta un interruttore: un meccanismo riprende a funzionare, uno scarico
espelle il fumo che bloccava tutto, e si alleggerisce la temperatura. E la
lingua, che prima era quella di un avvinazzato dopo diverse bottiglie di amaro
alle erbe, da un attimo all’altro diventa di carta velina.
In quinta fu difficile vedersi.
Lei girava l’Italia con una conferenza su Michael Ende, io avevo dei problemi
con il Risorgimento. Mi presi la rosolia subito prima dell’esame: lo feci a
casa, da solo con la supervisione della maestra, che si chiamava Lina e amava i
cappelli grandi. Quando ci incontrammo di nuovo, avevo ventinove anni. Ero il
giocatore di basket più famoso d’Europa, ma da un po’ avevo perso interesse
nello sport professionale. Un giorno - ero a *** per una serie di partite
dimostrative - andai al museo di storia naturale. Il tempo era grigio, c’era
poca gente. Lei da qualche anno si era sposata con un famoso attore giapponese.
Se ne era parlato su tutti i giornali. La vidi davanti allo scheletro del
triceratopo. Fissava una tibia, ma era come se non la vedesse. Giocava con un
anello, girandolo sul dito con l’altra mano. Mi affiancai a lei. Ero più alto
di circa venti centimetri. Come se niente fosse, mi parlò nello stesso identico
modo in cui mi parlava anni prima, sul letto. Si trovava lì per caso: il marito
girava un film da quelle parti, ma sembrava che mi stesse aspettando. E mi
raccontò, camminando per le sale semi vuote del museo, della sua vita e di come
il matrimonio non andasse tanto bene. Odiava il giappone, e più di tutto odiava
il mondo del cinema giapponese. Quando smise di parlare erano quasi le sette.
Uscimmo. Era buio. Allora, proprio in quel momento, guardando a terra, con le
mani in tasca, le dissi (mi sentivo la faccia rossa, e non sapevo da dove stavo
tirando fuori il coraggio di farlo, forse mi ero preparato per tutti quegli
anni, senza esserne cosciente): Lo sai, ti ho sempre amato. E lei rispose: Ah,
sì?
2 commenti:
Sei il più grande scrittore di guazzabugli di questo secolo e del precedente… dopo Ende ovviamente!
:-) Mi suona meglio "guazzabugliaro"...
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